In una fase dinamica e di grandi mutamenti, anche la leadership delle organizzazioni si deve adeguare. Alessandro Chelo indica le quattro leve fondamentali sulle quali agire

In un'epoca, come quella attuale, di repentini cambiamenti e improvvise accelerazioni, qual è il ruolo del capo? Che tipo di leadership serve per guidare le organizzazioni? Un tempo, stabilità e cambiamento si alternavano: la capacità dei manager di gestire l’ordinario e di allocare nel modo più utile le risorse era il fattore critico di successo della stabilità, mentre la capacità di toccare le corde emotive per coinvolgere i dipendenti era quello che guidava le fasi di cambiamento ed era appannaggio di pochi. Nella nuova epoca, invece, leadership e management si intrecciano fra loro tutti i giorni. Serve una capacità di guida più diffusa che informi di sé il management, il quale da un lato è impegnato nella gestione della complessità, dall’altro lato deve attingere a elementi di leadership per far fronte all’incertezza continua. Solo dall’integrazione delle due “cassette degli attrezzi”, infatti, si imparerà a “ballare sotto la pioggia anziché aspettare che spiova”, citazione di Gandhi con cui Alessandro Chelo apre il suo libro Il tempo della leadership. Le competenze manageriali per vincere la crisi (GueriniNext 2015).

I quattro suggerimenti per favorire la leadership

È proprio l'autore a indicarci le quattro leve fondamentali su cui agire per favorire “il tempo della leadership”. Eccole:

1. Leadership diffusa. Diffondere la capacità di leadership a tutti i livelli dell’organizzazione, con tanti team più piccoli guidati da team leader, che coinvolgano la propria squadra in un progetto comune, coerente con la vision-mission-strategy aziendale. Sono manager che usano anche gli strumenti della leadership, non gestendo solo il presente in modo razionale, ma partecipando alla costruzione del futuro facendo leva sulla vision e sugli aspetti emotivi. Si agisce sulla dimensione perché, all’aumentare della complessità, cresce la richiesta di competenze gestionali che rischiano di assorbire il manager sul fronte operativo, perdendo di vista l’aspetto legato alle persone e al loro engagement.

2. Ecoleadership. Incoraggiare le azioni di chi si spende personalmente per l’organizzazione senza che lo richieda il ruolo. Sono i cosiddetti ecoleader, coloro che si prendono cura dei loro ecosistemi. È una scelta libera e volontaria di tipo etico, finora per lo più invisa a capi e colleghi. La frase tipica è: “Ma chi te lo fa fare?”. Invece sono molto preziosi, sono gli allenatori in campo dei coach, i buoni esempi in una organizzazione. Si può agire su due livelli: riconoscendo questa attitudine come valore, ma anche dando potere alle community degli ecoleader, che potrebbero aiutarsi e scambiarsi informazioni tra un ufficio e l’altro, oppure occuparsi del benessere ambientale in azienda.

3. Talent leadership. È un superamento del talent management, che negli ultimi anni ha sviluppato sistemi per affinare sempre più le competenze, lavorando sui gap formativi (scostamenti fra obiettivi e risultati). Il talent management si muove sul piano della gestione ordinaria, individua i talenti che servono e punta alla qualità, per cui interviene sul miglioramento di ciò che è sotto lo standard, ma non all’eccellenza. Secondo Chelo, invece, si punta all’eccellenza facendo emergere quello che è il talento di ciascuno e finalizzarlo nell’organizzazione: «Questo presuppone una leadership umanistica che creda nel potenziale umano e nella capacità di crescere, che non vuol dire cambiare, ma potenziare le attitudini personali». La talent leadership richiede un dialogo autentico con i propri collaboratori per esplorarne le attitudini, che consentono di svolgere con facilità e naturalezza attività normalmente considerate difficili e che, quando finalizzate, consentono di ottenere risultati non ordinari.

4. Formazione per nuovi paradigmi. La formazione della nuova epoca non è una progressiva riduzione delle carenze e dei limiti verso la conformità, ma è finalizzata a far emergere il meglio di ciascuno, soprattutto quando si parla di competenze comportamentali, per poi veicolarle in azienda. In pratica, è una formazione che concorre a costruire il nuovo, con nuove competenze adatte ai tempi e all’organizzazione, mentre non si limita ad affinare e fare meglio ciò che appartiene ai paradigmi passati. Cosa fare però quando gli atteggiamenti individuali divergono dai valori aziendali? «Lo sport ci insegna molto – conclude Chelo –. C’è un progetto che unisce la squadra, un bel progetto condiviso che esprime buona parte della sua identità. C’è quindi una integrazione dei talenti e, infine, ci sono quei 3-4 comportamenti, che esprimono atteggiamenti che riflettono i valori aziendali. Non quindi prescrizioni astratte, ma testimonianza di valori attraverso un atteggiamento descritto da micro-comportamenti osservabili. Su questi, non si transige. Serve un’autorità di ruolo per chi è a capo di una organizzazione».

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