La crescente richiesta di figure altamente qualificate, unita alla rapidissima evoluzione tecnologica e alla competitività del mercato del lavoro, ha reso la cosiddetta “guerra dei talenti” una priorità strategica per le imprese. Attrarre i talenti migliori è solo il primo passo: la vera sfida è riuscire a trattenerli.

A complicare ulteriormente il quadro ci sono fenomeni come il job hopping, termine anglosassone che identifica la tendenza, sempre più diffusa, di cambiare lavoro con frequenza per cogliere nuove opportunità professionali.

una donna sorridente e alcuni colleghi che lavorano al pc in ufficio

quali sono i motivi che spingono i lavoratori italiani a cambiare lavoro? scoprilo nell’indagine Workmonitor di Randstad.

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Se è vero che un certo grado di turnover è fisiologico, il job hopping segnala un cambiamento più profondo nel modo di vivere la carriera, in particolare tra le nuove generazioni. L’ingresso dei Millennials prima e della gen Z poi nel mercato del lavoro ha accelerato la diffusione di questo fenomeno, influenzato anche da un clima economico incerto.

Per molti giovani lavoratori la stabilità occupazionale non è più la priorità assoluta. Le nuove generazioni tendono a privilegiare la flessibilità organizzativa, le opportunità di crescita, un migliore equilibrio tra lavoro e vita privata e, soprattutto, un allineamento autentico con i valori dell’azienda in cui operano.

Il job hopping è un fenomeno nato negli Stati Uniti e ormai sbarcato anche in Europa negli ultimi anni. In questa guida vedremo nel dettaglio che cos’è, chi sono le persone che lo praticano, qual è il suo legame con la generazione Z e quali vantaggi e svantaggi comporta.

job hopping: definizione.

Il termine “job hopping” indica la tendenza a cambiare lavoro con una certa facilità e ad intervalli di tempo relativamente brevi. Secondo la letteratura, questo fenomeno riguarda in particolar modo i Millennials (nati tra il 1981 e il 1995) e la generazione Z (nati tra il 1997 e il 2010).

Fino a qualche anno fa, il job hopping era diffuso soprattutto tra le figure professionali in ambito digital, un settore esploso in tempi rapidissimi a livello globale. L’enorme richiesta di competenze tecnologiche e la scarsa disponibilità di profili qualificati ha favorito un “gioco al rialzo” per i professionisti del digitale, che hanno potuto cambiare ruolo con maggiore facilità, ottenendo condizioni economiche e contrattuali sempre più vantaggiose.

Va considerato anche il contesto macroeconomico. Questa pratica è infatti maggiormente diffusa nei Paesi a basso tasso di disoccupazione - come gli Stati Uniti - dove la grande disponibilità di posti di lavoro rende più semplice abbandonare una posizione per un’altra, spesso con un miglioramento salariale e di condizioni.

Negli ultimi anni, però, il job hopping ha iniziato a prendere piede anche in Italia. Secondo un’indagine condotta dall’Agenzia Nazionale Politiche Attive del Lavoro (ANPAL) nel 2023, il numero di persone che ha cambiato lavoro almeno due volte nell’arco di 24 mesi è cresciuto in modo significativo. Se nel biennio 2015-2016 si contavano circa 2,35 milioni di casi, nel 2020-2021 il numero ha superato i 2,8 milioni, con un incremento del 20%.

Dietro questa tendenza non si nascondono soltanto motivazioni economiche. Anzi, per molti giovani lavoratori italiani si tratta soprattutto di una risposta a un basso livello di coinvolgimento e a una generale insoddisfazione nei confronti dell’azienda per cui lavorano.

Millennials e gen Z non sono disposti a restare in aziende che non li valorizzano o che non reputano importante il loro benessere. Cercano nuovi stimoli, desiderano crescere professionalmente e non vogliono rinunciare all’equilibrio tra lavoro e vita privata.

due persone che parlano mentre passeggiano
due persone che parlano mentre passeggiano

chi fa job hopping.

A essere protagonisti del job hopping sono soprattutto Millennials e generazione Z, portatori di una visione del lavoro profondamente diversa rispetto a quella delle generazioni precedenti. 

I Millennials sono entrati nel mondo del lavoro in un contesto segnato da crisi economiche, precarietà e trasformazioni digitali. La gen Z, invece, è cresciuta nell’era dell’incertezza permanente e della fluidità. 

Entrambe le generazioni condividono l’idea che la stabilità non sia più garantita e che per costruire una carriera soddisfacente occorra muoversi con agilità, cogliendo le opportunità migliori nel momento in cui si presentano. Da qui l’attitudine a cambiare spesso lavoro, non per mancanza di impegno o fedeltà, ma per cercare un contesto che risponda pienamente alle proprie esigenze professionali e personali.

Secondo il Randstad Workmonitor, entrambe le generazioni attribuiscono una certa importanza alla retribuzione - in particolare i Millennials - ma non la considerano l’elemento più importante nel lavoro. Tendono a lasciare un impiego se l’ambiente è tossico o se sentono che il lavoro non si adatta alla loro vita privata. 

Nella classifica dei fattori più importanti nel lavoro, Millennials e gen Z indicano al primo posto l’equilibrio tra vita personale e professionale, seguito dalla sicurezza del posto di lavoro e dal sentirsi realizzati in ciò che si fa.

Ciò che rende ancora più evidente la loro discontinuità rispetto alle generazioni precedenti è l’attenzione ai valori e all’impatto sociale dell’azienda. Secondo la stessa ricerca, danno molto peso alla missione e agli obiettivi del datore di lavoro, valutano l’impegno verso la sostenibilità ambientale e apprezzano chi prende posizione su temi sociali e politici.

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 job hopping e gen Z.

La generazione Z mostra una propensione marcata al job hopping. Questa tendenza è alimentata da diversi fattori, che distinguono i lavoratori nati tra il 1997 e il 2010 da tutti gli altri.

Un elemento determinante è l'aspettativa di flessibilità. Molti membri della gen Z hanno iniziato a muovere i primi passi nel mercato del lavoro durante la pandemia, un periodo in cui il lavoro remoto è diventato la norma. Di conseguenza, considerano la flessibilità come un requisito non negoziabile nella scelta del datore di lavoro.

A questa esigenza si affianca la tendenza ad evitare aziende che offrono scarse opportunità di crescita o che hanno una reputazione negativa in termini di sostenibilità ambientale e sociale. Questo orientamento riflette l'importanza che attribuiscono a valori come l'avanzamento di carriera e la responsabilità sociale d’impresa.

Tutto ciò evidenzia come la generazione Z sia alla ricerca di ambienti lavorativi che non solo offrano una retribuzione competitiva, ma che siano anche in linea con i loro valori personali e aspirazioni di crescita.

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pro del job hopping.

Chi pratica il job hopping può beneficiare di numerosi vantaggi, che vanno ben oltre il semplice aumento salariale. Cambiare frequentemente azienda consente infatti di accelerare l’avanzamento di carriera e di acquisire nuove hard e soft skills.

I lavoratori, passando da un’organizzazione all’altra, hanno l’opportunità di confrontarsi con ambienti diversi e metodi di lavoro eterogenei. Questo favorisce l’apprendimento, stimola l’adattabilità e rende più competitivi sul mercato del lavoro.

Un altro vantaggio è legato al networking: ogni nuova esperienza permette di ampliare la propria rete di contatti, aumenta la visibilità e permette di accedere a nuove opportunità professionali. La costruzione di relazioni diventa così un potente strumento di crescita.

Infine, il job hopping favorisce un migliore job matching: il lavoratore, cambiando frequentemente azienda, ha maggiori probabilità di individuare un’organizzazione realmente coerente con i suo valori e le sue aspirazioni.

contro del job hopping.

Pur offrendo numerosi vantaggi, il job hopping presenta anche alcune criticità che non vanno sottovalutate.

Cambiare lavoro con frequenza può trasmettere un’immagine di scarsa affidabilità o incoerenza. Un potenziale datore di lavoro, trovandosi davanti a un curriculum vitae che mostra frequenti cambi di impiego, potrebbe nutrire dubbi sulla stabilità e sulla lealtà del candidato, temendo che possa lasciare l’azienda nel breve termine. Questo può tradursi in una minore propensione ad affidare incarichi strategici o responsabilità di lungo periodo.

Il job hopping può avere un impatto anche sulla sfera psicologica del lavoratore. Il bisogno incessante di cercare opportunità lavorative migliori può generare stress, insoddisfazione e senso di precarietà, compromettendo il benessere complessivo.

Lato azienda, l’abbandono del posto di lavoro da parte dei collaboratori influisce sul clima organizzativo, soprattutto se a lasciare è una figura chiave o molto stimata. In questi casi, il rischio è quello di innescare un effetto domino con conseguenze sulla produttività e sull’engagement.

Per affrontare questa realtà, le imprese sono chiamate ad acquisire maggiore consapevolezza circa le aspettative delle giovani generazioni e ad attuare strategie mirate per valorizzare i talenti, favorire il benessere e rafforzare il senso di appartenenza.

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